Dalle idee antiche al concetto di infinito in matematica

 

 

PATRIZIO PERRELLA & GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 17 settembre 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO]

 

 La chiarificazione definitiva della natura dell’infinito […]

è necessaria per la dignità stessa dell’intelletto umano.

[David Hilbert, Sull’infinito, 1925]

 

 

1. Cosa rappresenta per noi l’infinito e perché vale la pena occuparsene. Cos’è per noi l’infinito? Un’astrazione dell’intelletto, un’aspirazione dell’animo, un desiderio di immortalità o solo il ricordo di una sensazione provata nell’immergersi e spaziare con lo sguardo in una scena naturale illuminata fino a perdita d’occhio o nell’esplorare di notte un cielo stellato? O, forse, l’atmosfera dell’idillio leopardiano, in cui ci siamo immersi sui banchi di scuola, col potere evocativo del suo linguaggio neo-spinoziano sapientemente scandito su un ritmo interiore, contemplativo e intenso, intimo e universale allo stesso tempo. Per qualcuno rimane solo un simbolo a forma di otto disposto in orizzontale, magari preceduto da un più o da un meno in esercizi di matematica, ma per altri è parte di momenti personali di riflessione su quel concepibile che va oltre ogni possibilità di esperienza.

Indipendentemente dal punto di partenza di ciascuno – compreso quello ipotetico di chi non abbia mai pensato all’infinito – desideriamo invitare i lettori a seguirci in un percorso sull’argomento, compiuto attraverso nozioni sintetiche, tracce di esperienze culturali, riflessioni sulla stessa formazione del concetto e, soprattutto, sul suo impiego nell’orizzonte del mathema contemporaneo.

Abbiamo preso le mosse dalle ragioni di un’evidenza: da argomento di tradizionale cimento filosofico, fin dall’antichità classica, l’infinito ai nostri giorni sembra essere diventato di esclusiva pertinenza matematica, per effetto di un’evoluzione che si è compiuta nel corso del Novecento[1]. Comprendere, o almeno cercare di analizzare, qualcuno dei motivi di questo cambiamento avvenuto dopo oltre due millenni, al di là del semplice riconoscimento della tendenza negli anni recenti alla compartimentazione del pensiero in domini specialistici, può aiutare a rendersi conto delle mutate esigenze psicologiche all’origine della tensione conoscitiva e del mutato atteggiamento mentale nei confronti dei grandi interrogativi dell’umanità.

Intanto, per introdurci al concetto di infinito in filosofia, così come è stato trattato fino a prima di diventare oggetto di esclusiva pertinenza matematica, adottiamo la sintesi di un dizionario enciclopedico, che rileva l’identità di principio di natura metafisica all’origine di ogni cosa: “Il principio metafisico, non limitato da alcun termine di spazio e di tempo, senza alcuna determinazione finita, principio che è matrice di ogni oggetto particolare, ma non si esaurisce o identifica compiutamente in alcuno di essi: principio variamente affermato o negato nel corso della storia della filosofia, anche in relazione ai concetti analoghi di perfezione e assoluto. Identificato con Dio, con l’universo sensibile inteso in senso panteistico, con la sostanza stessa dello spirito pensante” (Sansoni)[2].

Fino a metà del XX secolo ha prevalso dunque una concezione di infinito metafisico, ma non era stato così nella Grecia antica, quando filosofi matematici quali Parmenide, Zenone e Democrito già impiegavano per utilità pratica il concetto di infinito come sinonimo di operazione di determinazione “senza fine”, nel considerare le figure geometriche costituite da una quantità infinita di elementi[3].

La questione della divisione di una grandezza, legata ai fondamenti della matematica, nacque con i pitagorici e contribuì alla costituzione di una radice concettuale forte del valore semantico conservato in tutte le lingue moderne per il termine “infinito”. In realtà, in quell’epoca si era già andata costituendo una “matematica dell’infinito”, ossia una scienza di questo concetto al limite del pensabile in grado di consentire a Eudosso e Archimede di risolvere il problema della divisione di una grandezza, guadagnandosi l’appellativo di padri del calcolo infinitesimale conferito loro dai moderni.

In questo ambito di esercizio della cognizione, il problema del continuo o dell’infinita divisibilità di una retta è risolto mediante la teoria delle proporzioni o assioma di Archimede[4] che, nella sua versione eudossiana, costituisce la base del moderno concetto di numero[5].

L’infinito, considerato da molti come il “Santo Graal della Matematica”, ha avuto nel secolo scorso anche una sorta di mitizzazione letteraria, in cui fra l’altro si sosteneva che chiunque si fosse avvicinato alla soluzione del suo mistero sarebbe stato colto da sventura; e così si disse che Georg Cantor avesse perso la ragione per i suoi studi, seguendo la fola di sottocultura popolare secondo cui si impazzisca per il “troppo pensare”[6].

Sapere qualcosa dell’infinito in matematica aiuta molto a capire la filosofia contemporanea e molti approdi del pensiero teorico dei nostri giorni, perché l’esercizio logico imposto dalla necessità di gestire in modo rigoroso questo concetto ha fornito modelli di ragionamento a filosofi e pensatori delle più varie estrazioni culturali. Inoltre, può aiutare anche a comprendere i modi, le origini, le caratteristiche e i limiti degli atteggiamenti mentali presenti nella maggior parte delle persone; una maggioranza che sembra seguire mode, stereotipi e tendenze collettive quando non è costretta da bisogni personali ad assumere posizioni definite, e, in ogni caso, non sembra deliberare per effetto di una riflessione derivante da un ragionamento su una propria visione del mondo. Infatti, per rendersi conto di alcune tendenze inconsapevoli o bias e delle abitudini di pensiero assunte acriticamente, non è sufficiente seguire meta-ragionamenti su qualche tesi filosofica, ma è necessario esercitare attivamente la propria intelligenza su concetti fondamentali, paradigmatici o essenziali, perché l’analisi del loro senso d’uso spesso rivela alla coscienza i modi seguiti dal nostro pensiero. Uno di questi concetti è senz’altro quello di infinito[7].

 

2. Concepire l’inconoscibile: i processi mentali intorno all’idea di infinito. Una delle origini del nostro interesse è costituita dai processi mentali compiuti dall’uomo intorno all’idea di infinito: un cimento particolare, a nostro avviso, perché si colloca al limite tra ciò che la nostra mente può concepire e ciò che riteniamo non possa concepire, perché non si riesce a ricondurre ad alcuna astrazione familiare o parametro di esperienza. Infinito è propriamente qualcosa che non ha fine e, così dicendo, pur se immediatamente richiamiamo alla mente di chi ci ascolta uno spazio di cui non si vede il limite, implichiamo una dimensione temporale, in quanto per figurarsi qualcosa che non finisce o dobbiamo far ricorso a un movimento immaginario di esplorazione percettiva di durata illimitata – e tale è perché non trova mai la fine – o, invece di immaginare lo spostamento con la mente del soggetto esplorante, possiamo figurarci qualcosa che, indipendentemente dall’osservatore, continui nel tempo per sempre, come esistenza o come moto.

L’infinito quale concetto va oltre l’astrazione del limite: io posso concepire qualcosa che non ha limite, anche se questo illimitato, che posso menzionare e figurare nella dimensione dell’immaginazione, nella sua attualità non potrebbe essere esperito dai miei sensi, perché non potrebbe entrare nella mia realtà fisica di materia biologica limitata per quantità nello spazio e per durata nel tempo.

Abbiamo parole specifiche per designare particolari modi di essere temporalmente infinito, ad esempio definiamo interminabile qualcosa che procede o continua indefinitamente, e chiamiamo eterno ciò che ci sarà per sempre, soprattutto se c’è sempre stato.

L’origine dei concetti in termini neurofunzionali è stata studiata e analizzata approfonditamente negli ultimi decenni e spiegata in via ipotetica da interessanti teorie, prima fra tutte quella di Gerald Edelman, ma qui non vogliamo addentrarci nel problema delle basi neurobiologiche della cognizione umana o considerare i processi neuronici cerebrali sottostanti l’ideazione, ma limitarci ai contenuti di quell’esercizio mentale governato dalla riflessione consapevole che consente l’entrata dei concetti nella coscienza individuale e collettiva.

Siamo affascinati dall’idea di ciò che poteva accadere nella mente dei nostri progenitori ancestrali, quando ancora non esistevano parole per dire “infinito”. Immaginiamo uno di loro su una costa o una spiaggia, davanti alla scena naturale del mare che si perde all’orizzonte nel cielo in cui splende il sole; ce lo figuriamo volgere intorno lo sguardo e scorgere il limite prossimo della riva e quello distante, dove termina la superficie dell’acqua, e poi ruotare il capo per avere visione di tutta la volta celeste e notare che è illimitata.

Se quadri di esperienza simili hanno avuto realmente importanza nella formazione delle prime tracce mentali, allora è ragionevole supporre che solo il cielo possa aver costituito il prototipo dell’immenso senza fine; ma è altrettanto plausibile che altre tracce mnemoniche, quali quelle associate alla lontananza estrema e indistinta o all’indeterminabilità di limiti e confini, possano esservi state associate nella mente fin dall’inizio.

In proposito, può aiutarci una riflessione antropologica. Studi paleoantropologici hanno desunto per varie specie di ominidi protoumani un’attività locomotoria quotidiana di decine di km, verosimilmente legata alla loro attività di cacciatori-raccoglitori, ma anche indice di un rapporto di conoscenza deambulatoria col territorio. L’attività cerebrale prevalente era legata al controllo psicomotorio e alla percezione in movimento, pertanto questi progenitori dovevano essere molto più “dinamicamente esecutivi” di quanto possiamo immaginare oggi, noi abituati ad essere serviti dalle nostre comode tecnologie. Ad esempio, per noi misurare una distanza vuol dire riportare in un codice numerico la lunghezza di un percorso; per un primitivo voleva dire conoscere per esperienza la durata di un cammino o il raggio di un lancio di pietra.

Trovarsi di fronte una radura o un bosco voleva dire attraversarli di corsa, essere al cospetto di un monte voleva dire arrampicarvisi e, se troppo alto o difficile da scalare, rinunciare lasciando indefinita l’esperienza di conoscenza misurativa, magari consentendo il formarsi di una traccia di memoria in cui “lontano”, “sospeso”, “indefinito” o “difficile da raggiungere” confluivano in una stessa area. Per i primitivi, prefigurarsi cosa ci fosse al di là di un lago, di un fiume o di un colle, non doveva essere la prima istanza dell’agire mentale, ma solo la conseguenza dell’impossibilità di saperlo andandoci subito di persona.

 Immaginiamo quindi la nascita delle idee matrici di concetti dall’esperienza primordiale dell’uomo immerso nella realtà naturale: un ipotetico inizio, in realtà inesistente in quanto tale, che si può fissare solo per convenzione immaginaria in un tempo ideale, modello di quello che ha avuto luogo miriadi di volte nella mente di ciascun individuo. E, se assumiamo la prospettiva della neurobiologia evoluzionistica, dobbiamo supporre che la traccia neuronica di tali memorie del nostro cervello sia derivata da quella degli animali che ci hanno preceduto nella filogenesi. Dunque, nel risalire alla nascita di tali idee, non pretendiamo di riconoscere un autentico inizio, ma ci accontentiamo di cogliere, nel nodo che ha legato esperienza e conoscenza nei primordi naturali, un processo mentale paradigmatico.

L’infinito, in questo senso, coinciderebbe con ciò che si smette di cercare di definire per mancanza del modo e del tempo necessari a compiere questo atto di conoscenza.

Possiamo anche giungere a ritenere che non esista qualcosa che non abbia limiti in assoluto, e dunque che l’infinito non esista nella realtà ma solo nella nostra mente. In questo caso la nozione di infinito non sarebbe altro che un caso ideale della più generale categoria dell’indefinito.

 

3. Breve spunto sul concetto di indefinito in rapporto a quello di infinito. Accettando l’ipotesi di una matrice di senso originaria comune ai due concetti di indefinito e infinito, può essere utile una breve riflessione a partire da quel valore semantico riportato nelle opere lessicografiche per il termine indefinito, che ne costituisce il senso presente alla coscienza comune attraverso la trasmissione culturale e la comunicazione.

Indefinito come aggettivo è non determinato da confini certi; e si dice di spazio, di tempo, di quantità (Palazzi), oppure non determinato entro certi confini (Sansoni); in maggiore dettaglio si legge: non definito, detto di fatti o situazioni su cui non è stato dato un giudizio definitivo: la questione, la vertenza resta indefinita. Più spesso, di cosa non determinata nei suoi limiti precisi o nelle sue qualità (Treccani).

In grammatica il pronome indefinito non determina la persona: chi, qualcuno, chiunque. Dunque, in grammatica l’indefinito designa ma non determina. In matematica[8] si può cogliere l’uso del concetto di indefinito secondo il valore semantico di “non finito”, che non distingue una fine non determinata da una fine non conoscibile, ad esempio nel caso di solidi che si ottengono da quelli elementari convenzionali, come un prisma o una piramide, cui si prolunghino all’infinito gli spigoli o le facce laterali, così che diventino un prisma indefinito o una piramide indefinita.

Quest’ultima accezione ci riporta a quella ipotetica matrice del concetto di infinito che è l’esperienza del non determinato in quanto non conosciuto, come un luogo ignoto perché mai raggiunto da un viaggio e, di fatto, coincidente con l’inesplorato. In altri termini, la dimensione di concettualizzazione originaria deve essere stata una memoria di senso grezza e generale da cui “non conosciuto” e “non conoscibile”, così come indefinito e infinito, hanno tratto origine.

L’indefinito può anche essere inteso come incerto, incompiuto. Anche se è opportuno ricordare che in molti casi concreti si appella “indefinito” un oggetto, non solo e non tanto perché ci appare incompiuto o perché lo riteniamo intermedio fra classi note, ma perché manchiamo della conoscenza necessaria e sufficiente a definirlo.

In termini di atteggiamento psicologico si possono considerare due approcci al significato: negativo e positivo. Se l’esperienza che ha attivato l’interesse o l’attenzione è di carattere negativo, il soggetto considera l’essere indefinito come espressione di un difetto (defectus), una mancanza. Se il presupposto mentale è positivo, il soggetto considera l’essere indefinito come espressione di una qualità superiore a quella di ciò che è definito e circoscritto e, dunque, qualcosa di più, come l’infinito rispetto al finito[9].

In realtà il finito, inteso come compiuto, conosciuto e definito, è un concetto storicamente legato a quello di misura: la stima dimensionale conferisce un tratto distintivo e un elemento incontrovertibile per delimitare qualcosa in modo certo, e solo per ciò che sfugge a questo giudizio, in qualità di eccezione, gli antichi prevedevano la qualità di smisurato.

 

4. La cultura classica fondata sulla pratica della misura lascia poco spazio allo smisurato e associa il divino al molteplice. Si suole dire che i Greci ebbero nella misura la loro cifra[10]: la metis platonica, quale risorsa ineguagliabile per la ragione e chiave essenziale di armonia per l’estetica, esprime e rappresenta in modo esemplare la vetta culturale di quella civiltà. I Greci hanno dimostrato per secoli che l’uomo è capace di misura, e questa non è una virtù di pochi saggi e artisti sublimi, ma è un atteggiamento dell’intelletto che si traduce in una pragmatica di vita che può essere evocata in tutti, con l’esempio, fin dall’infanzia.

È interessante notare che l’esercizio della misura non è una semplice pratica dell’agire, ma un modo di essere che tutela la propria forma; oggi diremmo che contribuisce all’equilibrio psico-fisico e aiuta a essere sé stessi anche nelle circostanze disarmoniche che indurrebbero la perdita della misura. Aristotele in proposito insegna che se ogni proairesis, ossia ogni decisione, è ispirata dalla phronesis, o saggia prudenza, consente all’uomo di trovare ogni volta il giusto mezzo, mesotēs, per non tradire sé stessi o la ragione[11].

La misura è anche un criterio di giudizio, consistente nel riportare a un calibro, e per questo a ragione, fenomeni, fatti e comportamenti di uomini e dei.

Si legge che l’infinito per i Greci era posto nella natura, ma a ben guardare si tratta di un concetto molto diverso da quello moderno: la phusis o physis, in continuo divenire, origina dal chaos, prima del quale vi sono le nebbie di tracce mitiche eterogenee e contraddittorie, che denunciano la mancanza di appigli di conoscenza per l’esercizio della fantasia creativa e rimandano l’infinito a un “non ancora definito”. Il concetto moderno, strettamente connesso con quello di assoluto, sembra risentire di qualche millennio di esperienza religiosa monoteista.

Per cercare di comprendere la matrice di senso in cui si colloca l’infinito dei Greci, dal quale derivano le concezioni matematiche opposte all’idea dell’unico assoluto, possiamo attingere agli studi di Dodds che, nel saggio I Greci e l’irrazionale, vera pietra miliare per l’analisi antropologica dei classici, ha dimostrato come la civiltà greca nel suo complesso emerga da una lotta mai conclusa con l’indeterminabile[12].

La condizione stessa della natura o phusis evidenzia questa realtà: proviene dall’indefinito del chaos e persiste nelle metamorfosi inesauribili di zoe, ossia la vita che si perpetua per un tempo inconoscibile da parte dell’uomo, che può interpretarne solo un piccolo segmento, costituito dal bios della sua esistenza[13]. L’analisi linguistica ci rende conto di come la natura sia stata sempre concettualmente legata all’essere, in quanto dalla radice sanscrita bhu-, bhavati originano tanto il greco phusis quanto il latino fui, perfetto di esse[14].

Il chaos è origine dell’essere e di ogni altra cosa, ma l’esperienza che ha dato luogo alla sua formulazione concettuale si comprende meglio studiando il collegamento semantico del vocabolo greco ai verbi chascō, chainō, che significano “mi apro, mi spalanco”. Si ritiene, infatti, che la parola chaos non designi lo stato materiale della realtà che ha preceduto l’epoca dell’esperienza umana, ma si riferisca in modo figurato all’aprirsi della scena dell’origine allo sguardo metaforico della mente. Anche se non si può ragionevolmente escludere che il valore semantico di “apertura” alluda all’essere aperto a tutte le possibilità di differenziazione della materia.

Il chaos greco è, di certo, più fusione che confusione, ossia ha più a che fare con l’indifferenziato che col disordinato.

Il chaos non è dunque un approdo conoscitivo, ma un concetto consapevolmente riferito al tentativo della mente di figurarsi lo stato embrionario dell’esistente.

L’indefinito dell’origine non ha tuttavia avuto presso i Greci la rappresentazione primaria di un magma caotico ma, come si legge nel racconto di Diogene Laerzio, l’influente teoria del protofilosofo Talete considera “l’acqua principio di tutto e il mondo animato e pieno di dei”[15]. Salvatore Natoli chiarisce con queste parole: “Per Talete, dunque, principio di tutto sarebbe l’acqua e non quella che scorre per terre e continenti, né il mare che li circonda, ma l’acqua ‘primordiale’ da cui germinano tutte le cose. Un’acqua originaria che impropriamente possiamo anche chiamare Dio, ma che quelli che ‘per primi filosofarono’ chiamarono phusis: natura”[16].

Il mezzo liquido primordiale, evidente figura della fluidità, secondo Talete era popolato di dei, ossia di potenze individuate, indipendenti e molteplici. Non si tratta di un’intuizione o di un’invenzione del protofilosofo, ma dell’interpretazione di una concezione diffusa, nella quale possiamo riconoscere una radice psicoantropologica, costituita dalla tendenza a credere nell’esistenza di una pluralità di forze degne di personificazione[17].

Senza addentrarci nel mare magnum delle questioni relative alla creazione mitologica delle divinità, ricordiamo che gli dei personificavano potenze della natura, poteri della mente e poi, sempre più, consistevano nella deificazione di persone con qualità eccezionali che in vita avevano gestito qualche forma di potere. Il divino era associato in modo radicato alle potenze innumerevoli di Talete. In proposito, Blumenberg fa un’osservazione suggestiva: quando San Paolo si reca ad Atene per annunciare il Vangelo, l’ara dell’Areopago davanti alla quale pronuncia il suo celebre discorso[18] non è dedicata a Dio, ancora ignoto ai Greci, ma a “un dio ignoto”, uno degli innumerevoli dei che aleggiano sulla realtà umana[19]. Nel mondo tardoantico, come osserva Norden, non era difficile incontrare altari dedicati a ignotiis diis, ossia a dei ignoti[20].

La tendenza psicologica ancestrale a credere in una pluralità di potenze sovrumane cui potersi rivolgere nelle necessità della vita, si può riconoscere anche nell’interpretazione popolare idolatra del culto dei santi, spesso eletti dai popoli a sostituti dei numi tutelari che, a loro volta, avevano sostituito arcaiche divinità delle culture di sostrato.

Stabilito che gli dei pagani sono per definizione numerosi e ciascuno di essi, essendo tutti immortali, presenta il requisito di infinito circa il tempo di esistenza, possiamo ritornare al confronto tra aspetti della visione greca e giudaico-cristiana della realtà.

 

5. L’infinito è un assoluto che si identifica con Dio nella cultura ebraico-cristiana. Per i Greci la natura è solo in parte conosciuta perché conoscerla richiede una grande volontà, necessaria alla paziente osservazione, e un’acuta intelligenza, quale quella di Archimede, indispensabile per dedurre le leggi dai fenomeni. Lo smisurato della phusis è condizione di cimento per l’uomo e spesso richiede forza, coraggio, acume, conoscenza, scaltrezza e perseveranza per essere ricondotto a misura, ma, anche quando si fallisce nell’impresa, si è certi che prima o poi si riuscirà. Conoscere la natura e trovarne di volta in volta la misura è compito arduo ma possibile.

Impossibile, invece, per il credente ebreo e cristiano conoscere gli abissi insondabili della realtà divina.

Per il pagano la ragione è solo dell’uomo: conoscere la natura vuol dire riportarla a ragione, ossia a misura d’uomo. Al contrario, per il credente l’intelletto e la libera volontà sono di Dio e hanno un riflesso nell’uomo fatto a immagine e somiglianza del suo Creatore; la natura non è altro che il creato e ha in sé come leggi delle emanazioni di senso dello Spirito di Dio, il Fedele per eccellenza nella sua divina coerenza assoluta, fondamento di certezza per l’intelletto di chi ha fede, ossia per il credente, quale era Albert Einstein, che spiegò la sua eccezionale capacità di scoperta con la celebre frase: “Dio non gioca a dadi”.

La visione del credente si desume facilmente dalla formula di Sant’Agostino, che esprime in una sintesi di rara efficacia l’atto creativo come Verbo che compie la volontà del Padre: dixisti et facta sunt[21], e ci fa supporre che l’universo sia conoscibile in quanto opera finita del Creatore infinito, concepita secondo criteri di ragione divina impressi nella mente dell’unica creatura suscitata dalla terra per la vita nello spirito immortale.

La decifrabilità del creato o natura per il credente è dovuta al fatto che il suo senso e quello dell’intelletto umano che ne è parte, hanno in Dio una radice comune. La decifrabilità, non è superfluo sottolinearlo, è tenuta distinta nella concezione ebraico-cristiana dall’assoluto del senso quale valore insondabile della divinità.

La comparsa di Javé (JHWH) nella coscienza e nella storia dell’umanità ha proprio questo inestimabile e incomparabile valore: conferisce senso a tutto. Il creato quale esito di una decisione esiste come progetto divino nel quale ha senso ogni istante della vita di ciascuno, ogni moto delle più minuscole particelle subatomiche, ogni più piccola transizione energetica, al pari della durata dell’intero universo. Il finito dell’uomo e di tutto il creato ha senso nell’infinito di Dio.

Si può essere all’interno di questo senso e goderne i benefici a patto che si riconosca la nostra intelligenza quale puntiforme riflesso dell’incommensurabile Spirito divino; se, al contrario, si ritiene il proprio intelletto in grado di misurare, valutare e giudicare Dio, stabilendo con dei ragionamenti se esista o meno, si è fuori da questo senso.

Per gli atei[22], Dio è la più grande invenzione di potere dell’ordine simbolico nel registro dell’immaginario; per i credenti è verità rivelata. Indipendentemente dalla sua reale natura di prodotto della mente umana o di Creatore dal nulla di tutta l’energia e la materia universalmente esistente, compresa la dimensione mentale del nostro cervello, è postulato come eterno, onnipotente, onnisciente e onnipresente, ovvero illimitato o infinito rispetto a ogni categoria dimensionale del giudizio umano. Se consideriamo che Dio non ha bisogno del processo umano di conoscenza, consistente nel portare all’intelletto gli elementi da sapere, in quanto conosce per diretta appartenenza, possiamo identificare tra loro i requisiti di onniscienza e onnipresenza. E, soprattutto, possiamo considerare tutta la realtà universale inscritta nell’infinito della sua esistenza e del suo potere.

Il Dio giudaico-cristiano è concepito come entità identitaria e non come valore diffuso, quale è la divinità nel panteismo, e risponde infatti a un’identità unica sotto ogni aspetto e declinata dai cristiani nelle tre Persone uguali e distinte del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, identificate in un’unica volontà. Questo connotato identitario pone immediatamente una questione di necessità: tutto ciò che costituisce la divinità deve essere parte di una continuità.

È vero che si tratta di un vincolo logico, e infatti i tratti e i caratteri non possono essere che aspetti di un tutt’uno coeso nel tempo e nello spazio, ma il requisito di continuità trova coerente rispondenza nella dottrina della Chiesa Cattolica, che stabilisce la continuità delle anime salve con lo Spirito di Dio nella Comunione dei Santi: la continuità con l’essenza divina, con la sua identità, garantisce l’appartenenza alla vita eterna, ossia all’infinito della vita.

L’incommensurabilità di Dio, ossia il suo essere infinito che non può ridursi a concetto umano, è conditio sine qua non per il suo riconoscimento: se si discetta o si disputa dell’Altissimo come se fosse un oggetto mentale definito e determinato, si sta parlando di qualcosa d’altro; nominare il nome di Dio invano consiste proprio nel disconoscerne la divinità ed è grave peccato in quanto è un agire che implica la trasgressione anche del primo comandamento[23]. Se si è credenti e si riconosce il Dio di Abramo, padre delle tre fedi monoteiste, la naturale conseguenza è la sottomissione del proprio intelletto all’Ente supremo: Islam vuol dire proprio “sottomissione a Dio”, ma la forma che questo riconoscimento assume in termini di requisito di coscienza nella tradizione cristiana si apprezza da un racconto sotto forma di exemplum attribuito a Sant’Agostino[24]. Il santo di Ippona era in riva al mare a meditare sul mistero della Trinità, quando vide un bambino che, con una conchiglia, prendeva acqua dal mare e la versava in una piccola buca; alla domanda di Agostino su cosa stesse facendo, il bimbo rispose che voleva travasare il mare nella sua buca, suscitando il sorriso del santo, che spiegò come fosse impossibile condurre a termine l’impresa. Ma il piccino divenne serio e, col tono di un adulto, gli disse che allo stesso modo sarebbe stato impossibile far entrare nella sua piccola mente il mistero della Santissima Trinità.

L’identità angelica del pargolo nell’interpretazione tradizionale ha la forza di un messaggio dal cielo: “Come pretendi di fare entrare l’incommensurabile di Dio nella tua piccola mente? Riconosci i tuoi limiti di creatura e compi un atto di umile sottomissione, accettando come mistero ciò che non puoi comprendere”. È significativo che, nella prospettiva cristiana, la questione cruciale sia costituita da una presa di coscienza.

In sintesi, la phusis greca, per quanto smisurata, può essere ricondotta a ragione, e gli dei, per quanto numerosi e immortali, sono enumerabili, conoscibili e prevedibili nel loro antropomorfismo; al contrario, il Dio ebraico-cristiano è l’Essere per eccellenza[25], illimitato in ogni sua qualità e irriducibile alla dimensione dell’intelletto umano.

 

6. Ancora un breve confronto tra concezione ebraico-cristiana e greco-pagana. Nella distinzione tra smisurato e incommensurabile possiamo riconoscere la differenza più profonda tra la mente pagana e la mente giudaico-cristiana. Lo smisurato della phusis indica una realtà che risulta fuori portata per l’attualità dell’esperienza, ma nulla di più. L’incommensurabile di Dio è verità rivelata e sancisce l’assoluta impossibilità dell’uomo di ricondurre il suo mistero infinito a ratione definita.

Non molti hanno presente che disponiamo di uno straordinario documento, rappresentato da un testo che, scritto ad Alessandria d’Egitto tra la fine del II secolo e l’inizio del I secolo a.C. con l’intento di dimostrare la superiorità della sapienza ebraica sulla filosofia greca e la vita pagana, ci offre una possibilità unica di confronto: è il libro della Sapienza della Bibbia.

L’autore, un pio giudeo di lingua greca che scrive a nome del re Salomone vissuto ottocento anni prima, spiega come le vie degli empi siano opposte a quelle della sapienza, che è in sé una realtà divina con un ruolo provvidenziale nella salvezza di Israele. La lettura del libro consente di dedurne le osservazioni che riportiamo di seguito.

La prima differenza paradigmatica fra Ebrei e Greci che emerge dal libro della Sapienza si deduce dall’affermazione che Dio ha creato l’universo pondere et mensura, che definisce la misura prerogativa del Creatore e “coordinata divina” del creato, in opposizione al pensiero greco che considera la misura cifra distintiva del saggio impiego della ragione umana.

Nel mondo greco-pagano vi sono tante filosofie quante sono le scuole filosofiche; per il popolo ebraico vi è una sola religione; a fronte delle numerose divinità pagane vi è l’unico Dio ebraico. Il giudizio greco-romano sull’uomo può seguire criteri diversi, cui corrispondono tipologie umane, stili di vita o ruoli sociali, e ognuno può eccellere in una particolare categoria di giudizio: ad esempio, l’areté primeggia per abilità di ingegno e doti tecniche, l’estlos per nobiltà di spirito e di condotta, l’agatos per valori morali congiunti a doti e talenti.

Il giudizio ebraico sull’uomo è scandito dal registro dicotomico saggio/stolto di natura morale, declinato in funzione del compimento del volere divino. La priorità assoluta del registro morale, esemplarmente resa dal libro della Sapienza, si compirà poi nella formula cristiana che vede la massima espressione della potenza divina nella sua infinita misericordia, considerata iscritta già nell’atto creativo.

Mentre il Greco apprezza la scaltrezza ingegnosa, ossia la metis di Ulisse, detto il polumetis, capace di efficaci inganni ai danni di avversari in guerra e in pace, e ne riconosce tutte le doti di eccellenza (areté), l’Ebreo considera iniquo un uomo simile, che inganna e danneggia il prossimo a proprio vantaggio, e lo condanna secondo una concezione morale affermatasi poi in tutta Europa con il cristianesimo[26]. L’impiego raffinato, efficace o potente della ragione e della logica, ammirato nel mondo classico, ha valore per gli Ebrei solo se posto al servizio di Dio.

Questo sintetico confronto culturale è sufficiente a comprendere che, mentre nel mondo pagano sono possibili tante idee diverse di infinito e a tanti elementi di esperienza si può riconoscere la qualità di non finito o non definito nella conoscenza, per l’Ebreo l’infinito, unico per definizione, è dimensione di certezza rivelata e ogni speculazione su questo tema è un discorso su Dio.

 

7. Come si giunge all’approccio logico e matematico contemporaneo: l’infinito in Kant. Per intitolare il secondo paragrafo abbiamo usato la formula “concepire l’inconoscibile” per sottolineare che, mancando la possibilità di diretta conoscenza empirica, l’idea di infinito si colloca al limite di ciò che possiamo concepire. E per questa ragione abbiamo riletto le opere di Immanuel Kant, il grande pensatore della filosofia del limite o ermeneutica della finitudine, come la chiama Nicola Abbagnano nel saggio Le origini storiche dell’esistenzialismo[27].

Il filosofo di Königsberg nella sua ricerca tende a stabilire, in ogni settore esistenziale, possibilità, validità e limiti, impiegando lo strumento della “critica”, ossia del discernimento e della ponderazione. Nella Critica della ragion pura afferma che, sebbene ogni conoscenza cominci con l’esperienza, la conoscenza non deriva esclusivamente dall’esperienza[28]. E, nel prosieguo dei suoi studi, giunge a limitare ulteriormente il valore preponderante della dimensione empirica, valicando i limiti del sensismo illuministico e accogliendo le istanze proprie dell’idealismo romantico. Cosa vuol dire? Per ciò che concerne l’infinito, vuol dire che ne accetta lo studio ma, mancando una base di esperienza percettiva, avverte che attraverso il metodo della speculazione non si potrà mai averne una conoscenza scientifica.

Cerchiamo di comprendere meglio i passi che conducono a questa determinazione.

Delle tre facoltà umane annoverate nella Critica del Giudizio, ossia sensibilità, intelletto e ragione, è proprio quest’ultima a dar luogo alla conoscenza meno certa[29]. Infatti, mentre la sensibilità è vincolata alla realtà percepita e l’intelletto tende a cooperare con la funzione percettiva dei sensi, consentendo di ottenere conoscenza scientifica dall’esperienza sensoriale[30], la ragione tende a svincolarsi dall’esperienza, a trascendere il fenomeno e ad assurgere al metafisico. Ma questa tendenza della ragione – che ne costituisce il principale limite – la porta a spingersi nel noumenico.

Il noumeno per Kant attiene alla “cosa in sé”, all’essenza pensabile ma inconoscibile della realtà e, in quanto tale, contrapposta al fenomeno; e il filosofo afferma che è “oggetto di intuizione non sensibile”[31]. Quindi il noumeno, inteso come ciò che riteniamo esistente ma non conosciamo quale oggetto o fenomeno, costituisce un limite della conoscenza umana.

L’infinito, dunque, in quanto appartenente al noumeno si colloca al limite della conoscenza e ne contrassegna il confine sensibile; ma non per questo Kant ne scredita lo studio, anzi, come per il concetto di sublime matematico[32], il pensatore prussiano sostiene che si tratta di qualità che risiedono nel nostro animo e, rivendicando la paternità della rivoluzione che ha subordinato l’oggetto da conoscere al soggetto della conoscenza, ne promuove lo studio. Inoltre, giustifica il desiderio di riflettere ed elaborare in termini logici le tesi che riguardano l’infinito come esigenza della ragione ad “essere soddisfatta in modo assoluto” e necessità per la funzione regolativa delle idee[33].

Kant però avverte: oltre il confine del noumeno non c’è conoscenza ma solo pensiero.

Direttamente o indirettamente, questo monito deve aver raggiunto molti pensatori impegnati nelle epoche successive a riflettere sul concetto di infinito. “Solo pensiero” può voler dire fermarsi alla revisione degli approdi dogmatici del pensiero religioso, oppure scegliere tra due opposte alternative: l’assenza totale di vincoli immaginativi, col rischio di fantasticare, e l’affidarsi allo strumento più rigoroso e potente per la logica e la ragione, ossia la matematica.

In realtà, come aveva previsto Kant, la riflessione noumenica non ha portato nuova conoscenza, e così il pensiero filosofico sull’infinito è andato estinguendosi, cedendo il passo al rigore del mathema, che ha occupato il campo grazie alla proficua applicazione di numerosi studiosi[34].

 

8. Come la Matematica definisce l’infinito. Il modo più corretto per cercare una definizione di infinito in Matematica è consultare un manuale di Algebra, ovvero di quella branca che, secondo le impostazioni accademiche, è la più prossima allo studio dei fondamenti della Matematica.

La prima cosa che potrebbe colpirci è che la definizione è fornita in forma negativa:

 

Un insieme non finito è infinito[35].

 

Per ricavarne un’interpretazione concettuale è quindi necessario consultare la definizione di insieme finito[36]:

 

Un insieme dicesi finito se risulta o vuoto o equipotente a qualche [insieme] {1, 2, …, n}.

 

Poiché equipotente a {1, 2, …, n} significa che i suoi elementi possono essere messi in corrispondenza biunivoca con i primi n numeri interi, la definizione ci dice sostanzialmente che un insieme è finito se riusciamo a contarne gli elementi e, precisazione non superflua, arrivati ad n (qualunque sia il suo valore) il conteggio termina.

Di conseguenza un insieme è infinito se i suoi elementi “non si possono contare” in un numero finito di passi.

Il caso più semplice in cui accade ciò è quando consideriamo insiemi dei quali è possibile enumerare gli elementi, quindi è possibile contarli, ma se provassimo a farlo non arriveremmo mai alla fine. In altre parole, quando ci si trova di fronte ad una enumerabilità interminabile.

È questo il livello più semplice di infinito che la Matematica riconosce, e lo denomina infinito numerabile.

L’insieme di tutti i numeri naturali {1, 2, …, n, …}, che per convenzione si indica con N, ne è appunto il prototipo.

Qualsiasi insieme S equipotente[37] ad N è un infinito numerabile.

È infinito numerabile, ad esempio, l’insieme di tutti i numeri pari perché per dirla in parole semplici, rinunciando alla precisione del rigore formale, riusciamo a “contarli”, ma per farlo dobbiamo utilizzare “tutto” N.

Naturalmente si potrebbero fare molti altri esempi di insiemi numerabili, non tutti così intuitivi come il caso appena citato dei numeri pari. Può sorprendere, ad esempio, che si dimostra essere numerabile anche l’insieme Q di tutti i numeri razionali[38].

 

È interessante, a questo punto, osservare che, nel passare dal finito all’infinito, alcune proprietà, che per gli insiemi finiti sono banalmente intuitive, assumono forme diverse quantomeno controintuitive se non addirittura paradossali.

Al finito, ad esempio, senza ricorrere a complesse dimostrazioni ci risulta facile accettare che qualsiasi insieme sia “più grande” di una sua qualsiasi parte[39]. Per gli insiemi infiniti, invece, questo non è più vero.

Consideriamo l’esempio, fatto precedentemente, dei numeri pari. Abbiamo affermato che i numeri pari sono un insieme numerabile e quindi, per definizione, equipotente a N. Ma è anche vero che i numeri pari sono solo una parte dei numeri interi, cioè sono un sottoinsieme proprio di N. Quindi abbiamo indirettamente affermato che l’insieme infinito N è equipotente ad una sua parte propria che è l’insieme dei numeri pari.

Ebbene, ciò non è un caso né tantomeno un errore; si tratta di una proprietà degli insiemi infiniti che, addirittura, li caratterizza:

 

S è infinito se e solo se esiste una parte propria di S equipotente ad S[40].

 

Ritornando, dopo questa breve parentesi sulle proprietà controintuitive degli insiemi infiniti, a discutere dell’infinito numerabile, è lecito chiedersi se questo è l’unico “tipo” di infinito che la Matematica individua.

A questo proposito è opportuno introdurre un semplice concetto di Teoria degli Insiemi che tornerà utile in questo discorso: l’insieme delle parti.

Sia S un qualsiasi insieme[41].

Consideriamo ad esempio l’insieme delle prime tre lettere dell’alfabeto latino:

S = {a,b,c}.

Insiemi come {a}, {a,b}, {b,c} sono sottoinsiemi (o parti) di S.

Consideriamo ora tutti i possibili sottoinsiemi propri di S (cioè contenuti in S e non vuoti):

{a},{b},{c},{a,b},{b,c},{a,c},{a,b,c}

 e a questi aggiungiamo l’insieme vuoto e lo stesso insieme S[42].

Costruiamo quindi un insieme di insiemi che contenga tutti gli oggetti appena elencati, cioè tutte le parti proprie di S, S stesso e l’insieme vuoto:

{,{a},{b},{c},{a,b},{b,c},{a,c},{a,b,c}}.

Tale insieme, per definizione, prende il nome di insieme delle parti di S e si denota nel modo seguente:

P(S)

 

Introdotto il concetto di insieme delle parti possiamo comprendere la rilevanza di un importante risultato dovuto al matematico tedesco Georg Cantor.

Cantor dimostra che per ogni insieme S vale la seguente relazione:

 

|S| < |P(S)|.

 

Ovvero, qualunque sia l’insieme S, l’insieme P(S) delle parti di S ha sempre potenza[43] maggiore della potenza di S.

Questo risultato è appunto noto in Algebra come teorema di Cantor.

 

Per gli insiemi finiti il teorema di Cantor potrebbe essere reso, in forma testuale, dicendo che l’insieme delle parti di un insieme dato è più numeroso dell’insieme stesso. E, in un certo senso, ciò è concettualmente abbastanza intuitivo.

Invece per gli insiemi infiniti, per i quali il concetto stesso di numerosità perde di significato in favore di un più generico concetto di enumerabilità e per i quali, come abbiamo visto, valgono proprietà quantomeno singolari, il risultato enunciato non è affatto scontato.

 

Bene, a questo punto vediamo in che modo questo risultato ci aiuta a progredire nel discorso sull’infinito. Proviamo ad applicare il teorema di Cantor al più noto e semplice degli insiemi infiniti, e cioè l’insieme N dei numeri naturali.

Si ha:

|N| < |P(N)|.

 

Questo significa che l’insieme delle parti di N ha potenza (strettamente) maggiore della potenza di N.

Ma N, lo si è osservato prima, è un insieme infinito numerabile. Deve quindi esistere un ordine di infinito “superiore” a quello dell’infinito numerabile e, applicando ad N il teorema di Cantor, ne otteniamo addirittura, in forma costruttiva, un esempio.

|P(N)| è dunque un infinito “più grande” dell’infinito numerabile.

Per convenzione quest’ordine di infinito prende il nome di potenza del continuo e per esso vale la seguente definizione:

|P(N)| = potenza del continuo.

 

Senza entrare nel merito di tecnicismi matematici osserviamo semplicemente che R, ovvero l’insieme dei numeri reali, si dimostra avere la potenza del continuo.

 

9. Esiste un ordine di infinito superiore al numerabile ed inferiore al continuo? Questo tema è stato a lungo indagato dai matematici ma non è stato possibile né trovare un tale ordine di infinito né dimostrare che non possa esistere.

Cantor, in virtù dei suoi studi, considerò negativa la risposta a questo interrogativo ma poté formularla solo in termini di ipotesi di lavoro:

 

non esistono insiemi S tali che |N| < |S| < |P(N)|.

 

Quest’ultima affermazione è appunto nota con il nome di ipotesi del continuo.

Il matematico austriaco Kurt Gödel, ricordato soprattutto per i suoi fondamentali contributi degli anni trenta del ’900 alla Logica Matematica con i suoi teoremi di incompletezza, dimostrò nel 1938 che l’ipotesi del continuo non è contraddittoria con gli assiomi della teoria degli insiemi[44]. Successivamente il matematico statunitense Paul Cohen, nel 1963, ne provò l’indipendenza[45].

È questa, quindi ad oggi, la risposta della Matematica alla domanda sull’esistenza di un ordine di infinito superiore al numerabile ed inferiore al continuo.

Ci si può allora porre anche un’altra domanda che, di seguito, andremo ad analizzare.

 

10. Esiste un ordine di infinito superiore al continuo? In questo caso la risposta è molto più semplice: si. Basta iterare l’applicazione del teorema di Cantor.

Ovvero, in virtù del teorema di Cantor, così come abbiamo ottenuto un ordine di infinito superiore al numerabile semplicemente costruendo l’insieme delle parti di un insieme numerabile (noi lo abbiamo fatto per N) possiamo, allo stesso modo, partire da un insieme che abbia la potenza del continuo, come ad esempio R, e considerarne il corrispondente insieme delle parti, nel nostro caso P(R). L’insieme così ottenuto deve avere necessariamente una potenza maggiore della potenza del continuo.

Naturalmente il processo può essere iterato indefinitamente.

Gli “infiniti” così costruiti sono oggetto di studio di quella che prende il nome di teoria dei numeri transfiniti (cardinali e ordinali) sviluppata da Georg Cantor.

In tale teoria il più piccolo numero transfinito è appunto la potenza dell’infinito numerabile ed è denotato con la lettera ebraica  (Aleph) indicizzata con il numero 0: 0 (Aleph zero)[46].

Il successivo corrisponde alla potenza del continuo ed è rappresentato da Aleph con indice 1: 1 (Aleph uno).

2 (Aleph 2), per quanto detto sopra, corrisponde alla potenza dell’insieme delle parti di R e così via, a seguire, i successivi i (Aleph con i) esprimono ordini di infinito sempre più elevati.

 

11. Come la Matematica tratta l’infinito dove semplicemente lo incontra. L’infinito è presente in molte altre branche della Matematica come ad esempio l’Analisi, ricca di continui riferimenti a infiniti e infinitesimi, ma, a differenza di quanto discusso nei precedenti paragrafi, in queste discipline l’infinito viene, per così dire, usato, trattato, gestito, più che indagato nella sua natura.

L’Analisi Matematica studia, ad esempio, il comportamento delle funzioni[47] ai limiti del proprio campo di esistenza[48]. Nel fare ciò è lo stesso concetto di limite ad essere strettamente collegato con l’infinito, ma non lo studia, semplicemente lo impiega. Vediamo in che senso.

Supponiamo di avere una funzione definita su tutto R, insieme dei numeri reali. In Analisi ci si chiede cosa accade ai valori della funzione “se ci si spinge ai confini dell’insieme R in cui la funzione è definita” ovvero, in termini più corretti, qual è il comportamento della funzione per x che tende all’infinito. E ci si trova, in generale[49], di fronte a due possibilità: o la funzione converge verso un particolare valore finito oppure i valori della funzione crescono indefinitamente e, di conseguenza, la funzione diverge, ovvero tende anch’essa all’infinito.

Analogamente, se esiste un valore per il quale la funzione non è definita, chiamiamolo x0 per comodità di esposizione, ci si chiede come si comporti la funzione “avvicinandosi indefinitamente” a quel punto, ovvero, con parole più precise, per x che tende a x0. E anche in questo caso la funzione può convergere oppure divergere, cioè tendere all’infinito.

Anche l’avvicinarsi indefinitamente a un valore finito, come il tendere a x0 dell’esempio precedente, implica l’infinito perché presuppone una proprietà topologica[50], in questo caso di R, in base alla quale comunque si scelga un punto x prossimo a x0 esistono infiniti elementi di R fra x e x0.

 

Un aspetto interessante dell’Analisi Matematica è che gli oggetti in essa studiati oltre ad essere trattati algebricamente possono essere rappresentati graficamente ottenendone così un’interpretazione geometrica. La Geometria Analitica è la branca della Matematica che ci permette di “vedere” gli oggetti matematici studiati dall’Analisi. Così, ad esempio, in questa interpretazione geometrica l’x0 di cui sopra, elemento di R e cioè numero reale, sarà rappresentato da un punto su una retta; una funzione, come ad esempio y = x2, sarà una curva del piano euclideo[51], e così via.

In Geometria Analitica possiamo quindi vedere anche l’andamento delle funzioni e il loro comportamento “al limite” nel senso precedentemente descritto. Possiamo vedere se in un dato punto tendono all’infinito o a cosa tendono se ci si spinge verso l’infinito.

Non possiamo però vedere l’infinito.

Anzi, di più. L’infinito, che al più si “intravede” come tendenza al limite nelle rappresentazioni grafiche, non è rappresentabile in Geometria Analitica e, di conseguenza, non può avere neppure una controparte algebrica esprimibile in termini di numeri reali.

Per avere un’idea della valenza di questa affermazione proviamo a considerare la retta che rappresenta i numeri reali R[52]. È possibile considerare il completamento all’infinito[53] di R mediante l’aggiunta di un simbolo che rappresenti l’infinito, tipicamente ∞; però, di fatto, su “quest’infinito” non potremo in alcun modo operare algebricamente: ∞ non è un numero reale!

 

Questo limite della Geometria Analitica viene però superato da un’altra branca della Matematica: la Geometria Proiettiva[54].

In Geometria Proiettiva, con l’introduzione delle coordinate omogenee[55] si riescono a definire algebricamente, oltre ai punti propri, anche i cosiddetti punti all’infinito che possono essere trattati, al pari dei punti propri, con tutti gli ordinari strumenti di calcolo dell’Algebra Lineare.

Nel piano proiettivo, quindi, ogni retta è costituita da tutti i suoi punti propri, ovvero quelli rappresentabili anche nell’ordinaria Geometria Analitica, più un punto improprio.

Ma concettualmente cos’è il punto improprio di una retta?

Sappiamo dalla Geometria Euclidea che due rette che giacciono sullo stesso piano o sono parallele, e quindi “non si incontrano mai”, oppure esiste un punto comune ad entrambe in cui le rette si incontrano[56]. Ebbene, in Geometria Proiettiva comunque si prendano due rette del piano esse avranno sempre un punto di intersezione. Possono però presentarsi due casi: 1) le rette hanno in comune un punto proprio; 2) le rette hanno in comune il punto improprio. Nel primo caso le due rette si intersecano nel senso classico della Geometria Euclidea; nel secondo si incontrano “all’infinito” ovvero sono parallele.

Quindi se il punto improprio è comune a rette parallele allora, concettualmente, ne esprime l’unica caratteristica che le accomuna: la direzione. Il punto improprio di una retta è quindi la direzione rispetto alla quale la retta “si prolunga verso l’infinito”.

Naturalmente rette fra loro non parallele hanno punti impropri distinti. Di conseguenza le infinite rette del piano a due a due non parallele[57] hanno infiniti punti impropri distinti. L’insieme di tutti i punti impropri del piano proiettivo costituisce la cosiddetta retta impropria. Ovvero, in un certo senso, quello che potremmo descrivere come “l’insieme di tutte le direzioni in cui è possibile andare verso l’infinito” nel piano.

 

12. Ambiti in cui l’infinito lo si incontra come concetto implicito a priori piuttosto che come oggetto matematico da indagare. Esistono poi intere branche della Matematica che non si occupano affatto dell’infinito, nel senso che non lo trattano né tantomeno lo definiscono, ma nelle quali l’infinito vi compare come concetto a priori, ovvero qualcosa che esiste a prescindere dagli oggetti matematici indagati in quella specifica disciplina.

Per illustrare questo tipo di circostanza un esempio per tutti, a nostro avviso efficace allo scopo, è l’halting problem.

Per poterlo illustrare è però necessario contestualizzarlo con qualche breve cenno introduttivo.

L’ambito al quale si fa riferimento è la Teoria della Calcolabilità, ovvero quella branca della Matematica che studia le funzioni effettivamente calcolabili, ovvero le funzioni i cui valori siano calcolabili mediante un algoritmo[58].

Il problema in questione, ovvero l’halting problem anche noto in italiano col nome di problema della fermata, è un problema di decisione[59] che riguarda le funzioni effettivamente calcolabili. Più specificamente gli algoritmi ad esse associati e l’evenienza che, in corrispondenza di particolari valori in input, il calcolo possa non terminare con un risultato.

L’halting problem può essere così formulato: è possibile trovare un algoritmo che, dato l’algoritmo di una qualsiasi funzione effettivamente calcolabile e dato un suo qualsiasi input, permetta di sapere in un numero finito di passi se per quel dato input l’algoritmo della funzione arriverà o meno a produrre un risultato?

Ebbene si dimostra che un simile algoritmo non esiste, ovvero l’halting problem è un problema indecidibile[60].

Si comprende come questo problema e il risultato relativo alla sua decidibilità, oltre ad un’intrinseca importanza teorica, abbiano anche grande rilevanza pratica se si pensa alle implicazioni in programmazione informatica.

Ma dal nostro punto di vista ciò che importa è un altro aspetto.

La domanda da porsi è: per quale motivo ha senso un simile problema di decisione?

La risposta è: perché l’evenienza che un calcolo non termini sussiste realmente.

E questo equivale a dire che alcuni algoritmi, con alcuni valori in input, realmente non riescono a terminare e, pertanto, continuano all’infinito.

Compare quindi, in Teoria della Calcolabilità, un infinito che, a differenza di quanto discusso nei paragrafi precedenti, non è un oggetto matematico ma un’evenienza concreta della vita reale: l’esecutore dell’algoritmo (a meno di interventi esterni all’algoritmo stesso) non può più fermarsi e continua il calcolo indefinitamente senza mai raggiungere un passo finale. Ovvero, in questo senso, all’infinito.

 

13. Considerazioni Conclusive. Per gli antichi l’infinito era una realtà che si imponeva alla riflessione; per i moderni, soprattutto da Kant in poi, l’infinito è un oggetto mentale che pone al soggetto dei problemi logici. I Greci, coerentemente con la loro cultura caratterizzata dalla pluralità di dei immortali, concepirono un numero illimitato di infiniti; nel pensiero occidentale cristiano l’infinito è unico, è vicino al concetto di assoluto e costituisce un attributo esclusivo di Dio. In seno al sapere matematico si conserva attraverso i secoli la nozione operativa, e non filosofica in senso stretto, di infinito adottata dai Greci.

All’alba del ventesimo secolo matura nella coscienza dei matematici la consapevolezza che, quel concetto da loro sempre impiegato nel suo senso intuitivo e declinato operativamente secondo i principi delle singole branche disciplinari, richiedeva un approfondimento teorico.

David Hilbert, impegnato nel trovare una dimostrazione della coerenza degli assiomi dell’aritmetica fin dal Congresso di Parigi del 1900[61], è considerato uno dei grandi promotori di questo studio. Nella sua conferenza Sull’infinito del 1925, dopo aver riconosciuto grande valore all’opera di Weierstrass, osserva che ha anche suscitato critiche e dispute: “Tali dispute non sono cessate perché il significato dell’infinito, nel senso in cui tale concetto è usato in matematica, non è mai stato chiarito completamente”[62]. E, nella stessa conferenza, non è tenero con i colleghi: “Leggendo attentamente ci si accorge che la letteratura matematica è piena di sciocchezze e di assurdità, la cui origine va ricercata nell’infinito. Per esempio alcuni sostengono, come fosse una condizione restrittiva, che in una matematica rigorosa sono ammissibili solo dimostrazioni con un numero finito di deduzioni. Come se si fosse mai riusciti ad effettuare dimostrazioni con un numero infinito di deduzioni!”[63].

Hilbert, con la sua spinta propulsiva, contribuì molto a promuovere lo studio che portò agli approdi di Kurt Gödel e Paul Cohen, di cui si è detto, anche se non si è mai giunti a quella chiarificazione definitiva della natura dell’infinito – da lui auspicata e da noi riportata in esergo – semplicemente perché non si è rivelata possibile. Infatti, non trattandosi di un oggetto materiale o di un fenomeno di cui si possa fare esperienza sensoriale, ma rimanendo un concetto al limite noumenico kantiano, non possiamo attenderci la “scoperta della vera natura dell’infinito”, ma solo progressivi miglioramenti e precisazioni nella formulazione del concetto. Non è solo utilmente pragmatico, ma è anche realisticamente opportuno identificare l’attuale campo di conoscenza dell’infinito in matematica con i risultati prodotti dallo studio e dall’impiego del concetto nelle sue varie branche disciplinari, come abbiamo scelto di fare noi in questo saggio e raccomandato già quarantadue anni fa da Dieudonné[64]. Anche se poi, lo stesso Dieudonné, rivelava la sua insoddisfazione per lo stato della conoscenza quando dichiarava: “Ciò significa che non abbiamo, in realtà, alcuna idea dell’infinito”[65].

In realtà il matematico francese, rappresentando l’opinione di molti suoi colleghi, rivela il non sopito intento di approdare a una definizione univoca e precisa dell’infinito attraverso il rigore del mathema. Ma trascura la questione nodale già affrontata dagli antichi: il concetto di infinito racchiude in sé quello di inconoscibile, e tale evidenza ha portato ai due possibili approcci che abbiamo discusso, ossia quello dell’identificazione con la dimensione trascendente, unica e assoluta del divino cristiano, e quello della qualità relativa di interminabile posseduta da numerosi soggetti e oggetti di natura diversa, come nelle teorie di filosofi e matematici greci. In altri termini, per soddisfare l’aspirazione di Dieudonné sarebbe necessario modificare il concetto stesso di infinito, declassando l’inconoscibile a non conosciuto, ma in tal modo si rischierebbe di confondere l’infinito con l’indefinito.

Lo studio dell’infinito in matematica negli ultimi decenni ha portato alla luce numerosi problemi e questioni dibattute, emergenti come difficoltà rivelate dagli approdi di ragionamento all’interno dei procedimenti specialistici delle particolari branche disciplinari, e difficilmente traducibili in linguaggio comune senza correre il rischio di snaturarne il senso.

Per evitare tale rischio non siamo entrati nel merito dei dibattiti, e abbiamo concepito questo breve saggio cercando di cogliere alcuni aspetti salienti dell’evoluzione diacronica di un concetto e fornendo nozioni, che speriamo possano introdurre alle questioni sollevate dallo studio dell’infinito con metodi matematici. E, d’altra parte, non saremmo potuti andare oltre un’introduzione, in quanto ci rivolgiamo in primo luogo a studiosi, docenti e discenti di discipline dedicate alla conoscenza del cervello e della mente, presumibilmente di buone letture filosofiche, ma non necessariamente in possesso di una formazione matematica universitaria. Saremo tuttavia lieti di proporre degli approfondimenti teorici, se avremo riscontri e richieste in tal senso.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura di scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Patrizio Perrella & Giuseppe Perrella

BM&L-17 settembre 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 



[1] Tale cambiamento è stato recepito, ad esempio, da curatori e autori del Grande Dizionario Enciclopedico UTET che, negli Strumenti del Sapere Contemporaneo (vol. “I Concetti”), trattano la voce infinito solo attraverso saggi matematici e logico-matematici.

[2] La definizione compare nel Dizionario Enciclopedico Sansoni edito in Firenze nel 1959 (con copyright della casa editrice Sansoni del 1960), che può dunque considerarsi aggiornata agli anni Cinquanta.

[3] La pluralità degli infiniti è tipica di questa cultura, basti pensare alla celebre frase di Epicuro, filosofo di scuola democritea: “Non solo il numero degli atomi ma anche quello dei mondi è infinito”.

[4] La teoria delle proporzioni non raggiunse una conclusione unitaria; il nucleo originario, di cui l’assioma di Archimede costituisce un’elaborazione, è attribuito da Archimede stesso a Eudosso di Cnido: “Date due grandezze disuguali non nulle, la minore sommata a sé stessa un numero sufficiente di volte, finirà col superare la maggiore”.

[5] Si ricorda che, nel complesso studio sulle spirali condotto da Archimede, l’infinito e la teoria delle proporzioni hanno un ruolo fondamentale.

[6] Nell’errore di considerare una vera possibilità questa convinzione superstiziosa fungente antropologicamente da razionalizzazione giustificatrice e protettiva per quanti erano dediti a una vita tutta rivolta ad attività manuali e pratiche, cade anche Nicoletta Latteri in Galileo e Archimede, il perché dell’infinito (AGORA Vox, venerdì 8 marzo 2013). In realtà, poco si sa della salute mentale e fisica di Georg Cantor, oltre che attraversasse periodi di sofferenza riportati da alcuni biografi a “crisi depressive”. È documentato che divenne povero indigente durante la prima guerra mondiale e fu ricoverato in un ospedale psichiatrico che scarseggiava di rifornimenti alimentari dove, pur continuando i suoi studi che inviava all’esterno, giunse a un’estrema magrezza, fino alla morte che lo colse il 6 gennaio del 1918. Per la magrezza può essere ipotizzato un vasto novero di patologie, verosimilmente aggravate dall’iponutrizione, ma non si può escludere una cachessia da cancro.

[7] Se siamo influenzati dalla concezione geometrica secondo cui una retta è infinita e per un punto passano infinite rette, non avremo difficoltà a immaginare l’esistenza di “infiniti infiniti”; se invece ragioniamo a partire da un’idea diffusa dalle tre grandi religioni monoteiste, ossia che “infinito” è solo ciò che è illimitato in tutte le dimensioni dello spazio e del tempo, per noi può esistere un solo infinito.

[8] Si precisa che qui in particolare si fa riferimento all’ambito della geometria. Per completezza osserviamo che in altre branche della matematica, come l’aritmetica o l’algebra, il termine indefinito può essere impiegato con accezioni differenti. Si dice, ad esempio, che il risultato della divisione per zero è indefinito per intendere che non è definito, ovvero nel senso che la definizione dell’operazione di divisione non contempla la possibilità di usare lo zero come divisore e quindi un tale risultato di fatto non può esistere.

[9] Senza esserne consapevoli, nel primo caso si rileva un difetto in ciò che si giudica, mentre nel secondo si riconosce il difetto nel proprio giudizio, insufficiente a riconoscere limiti per delimitare, definire e comprendere.

[10] Cfr. Salvatore Natoli, Parole della filosofia – o dell’arte di meditare, p. 116, Feltrinelli, Milano 2004.

[11] Il giusto mezzo o mesòtes richiede padronanza di sé e delle proprie azioni secondo Aristotele (cfr. S. Natoli, L’edificazione di sé, pp. 31-35) e non è facile praticarne l’arte, come si è poi creduto seguendo l’interpretazione di Orazio nel celebre est modus in rebus, che traduce la psicologia aristotelica in semplice pedagogia della moderazione.

[12] Cfr. Eric Robertson Dodds, I Greci e l’irrazionale, Rizzoli, Milano 2008.

[13] Zoe e bios, le due parole principali per dire vita in greco, costituiscono spesso una coppia di opposizione: la prima, universale, fondante e imperscrutabile, perché custode del mistero della vita e virtualmente infinita; la seconda, particolare, attuale e conoscibile per esperienza, ma limitata al “tempo di una vita”. Aion, parola che voleva dire tempo e midollo spinale, anche se spesso figurata come Zeus fanciullo che gioca a dadi, indicava la durata della vita di una persona che, secondo l’insegnamento di Giorgio Agamben, nella tradizione della Grecia arcaica si riteneva fosse impressa nel midollo spinale di ciascuno.

[14] Nozione classica derivata dagli studi di Benveniste e riportata da Salvatore Natoli (op. cit., p. 117).

[15] Diogene Laertio 1, 27, cfr. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Bompiani, Milano 2005.

[16] Salvatore Natoli, op. cit., p. 160.

[17] Nell’infanzia della storia della civiltà greca, questa esigenza psicologica è stata una delle radici del politeismo.

[18] San Luca, Atti degli Apostoli 17: 16-34.

[19] Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, p. 50, Il Mulino, Bologna 1991.

[20] Eduard Norden, Dio ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, p. 240, Morcelliana, Brescia 2002.

[21] È la celebre citazione dal testo originale delle Confessioni di Sant’Agostino: libro XI, 5.7.

[22] La peculiarità assoluta dell’ateismo del Novecento e del tempo presente è che non si tratta più dell’approdo speculativo di una corrente di pensiero filosofico o del consueto apparire nella storia come atteggiamento in piccoli gruppi sparsi di intellettuali, ma si configura per la prima volta come fenomeno di massa.

[23] Parlare dell’Altissimo o speculare sulla sua natura potrebbe rientrare nel caso del secondo comandamento mosaico, a meno che non si tratti di una riflessione finalizzata al compimento della Sua volontà. In ultima analisi, ha fondamento in queste considerazioni l’obiezione contro la teologia sollevata più volte da santi e credenti nel corso dei secoli, e interpretata nel Novecento con sapiente umiltà e profondità spirituale da Mons. Angiolo Livi, priore mitrato della Basilica di San Lorenzo e rettore del seminario di Firenze.

[24] Si ritiene che l’attribuzione risalga al 1263 e si fondi su una rivelazione divina ricevuta da Sant’Agostino, di cui si parla in una lettera apocrifa a Cirillo, mentre la trama dell’apologo sembra sia stata tratta da un episodio narrato in anni precedenti da Cesario di Heisterbach (1180-1240) in una raccolta di exempla.

[25] JHWH così si rivela al popolo ebraico: “Io sono colui che è”, spesso reso letteralmente con “Io sono colui che sono”.

[26] Dante Alighieri, nella Divina Commedia, colloca Ulisse nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti.

[27] Cfr. Nicola Abbagnano, Le origini storiche dell’esistenzialismo. Litografia Viretto, Torino 1944.

[28] Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura. Editori GLF Laterza, Roma-Bari 2000; si veda anche l’edizione con l’introduzione e le note interpretative e di commento di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1976.

[29] Cfr. Immanuel Kant, Critica del giudizio. Editori GLF Laterza, Roma-Bari 2018.

[30] La scienza è data dall’esperienza sommata ai giudizi sintetici a priori. Un esempio di giudizio sintetico a priori: tutto ciò che accade ha una causa.

[31] Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, pp. 210-211, Editori GLF Laterza, Roma-Bari 2000.

[32] Lo tratta nella Critica del giudizio.

[33] Cfr. nelle varie edizioni dei Prolegomeni i paragrafi 51, 52 e 56.

[34] Hermann Weyl, matematico, fisico e filosofo che collaborò a Princeton con Albert Einstein e diede contributi ai fondamenti, all’analisi, all’algebra, alla topologia e alla formulazione matematica della meccanica quantistica, considerò la matematica scienza dell’infinito.

[35] Curzio M, Lezioni di Algebra – Cap.1, N.9 Insiemi infiniti, p.27, Liguori Editore Napoli, 1970 (ristampa 1978).

[36] Curzio M, Op.cit., ibidem.

[37] In Teoria degli Insiemi la definizione di equipotenza può essere così formulata: due insiemi S e T si dicono equipotenti se esiste una applicazione biettiva di S in T. Tale circostanza si indica con |S| = |T| dove la notazione |S| prende il nome di potenza di S.

[38] Può essere utile ricordare che per numeri razionali si intendono tutti e soli i numeri esprimibili in forma di frazione con numeratore e denominatore interi.

[39] Più correttamente dovremmo dire “di ogni suo sottoinsieme proprio” o equivalentemente “di ogni sua parte propria”. Un formalismo che serve ad escludere che fra i sottoinsiemi del dato insieme si consideri l’insieme stesso.

[40] Curzio M., op.cit., idem.

[41] Per comodità di esposizione si è scelto di fissare l’attenzione su un particolare insieme finito che non necessiti di particolari sforzi di astrazione per essere compreso dal lettore, ma la definizione di insieme delle parti si applica allo stesso modo qualunque sia l’insieme S, compresi gli insiemi infiniti.

[42] Stiamo sostanzialmente aggiungendo i sottoinsiemi impropri di S: l’insieme vuoto, che per convenzione è sottoinsieme di qualsiasi insieme, e il sottoinsieme contenente tutti gli elementi di S nessuno escluso (che quindi coincide con S stesso).

[43] Per la definizione di potenza di un insieme si veda la nota 3 sull’equipotenza.

[44] Il tema della non contraddittorietà e dell’indipendenza in riferimento alla teoria degli insiemi va letta nella prospettiva della matematica fondazionale che, in estrema sintesi, riconosce nella teoria assiomatica degli insiemi le fondamenta dell’intero edificio matematico.

[45] Si fa riferimento, in particolare, agli assiomi della teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel. Cohen in sostanza prova che è possibile costruire teorie degli insiemi coerenti, sia ammettendo l’ipotesi del continuo che negandola. In altre parole questa congettura, dovuta a Cantor, risulta essere un po’ come il V postulato di Euclide in Geometria.

[46] A titolo di curiosità si riporta che la notazione Aleph 0, universalmente condivisa fra i matematici, viene rifiutata da Bertrand Russell che nella sua opera The Principles of Mathematics preferisce usare a0 e liquida così, in una nota, la scelta di Cantor: “Cantor impiega per questo numero l’Aleph ebraico con il suffisso 0, ma questa notazione è poco pratica.” (cfr. Russell B, I principi della matematica, Newton Compton editori, 1971, Capitolo Tredicesimo. Finito e Infinito, p.146, nota 2 a piè di pagina).

[47] Una funzione è un particolare tipo di corrispondenza che associa, in maniera non ambigua, agli elementi di un insieme “di partenza” (dominio) elementi di un insieme “di arrivo” (codominio).

Per avere un’idea intuitiva di funzione possiamo ad esempio considerare la corrispondenza che associa a ciascun numero reale x il suo quadrato x2.

Una tale funzione può essere denotata con y = x2, dove x è il generico elemento dell’insieme di partenza, ovvero nel nostro caso l’insieme R dei numeri reali, e y è l’elemento che la funzione fa corrispondere a x nell’insieme di arrivo, che nel nostro caso sarà sempre R.

Quella appena descritta è un esempio di funzione reale di variabile reale.

Per convenzione, per denotare una generica funzione di una variabile solitamente si utilizza una notazione del tipo f(x), oppure y = f(x).

[48] Per campo di esistenza di una funzione si intende “quella parte dell’insieme di partenza” in cui la funzione “ha senso”. Ad esempio, la funzione y = x2 ha come campo di esistenza l’intero insieme R perché è possibile calcolare il quadrato di qualsiasi numero reale, mentre la funzione y = 1/x ha come campo di esistenza R privato dello zero perché la divisione per zero non è possibile e quindi per quel particolare elemento di R, cioè lo zero, il corrispondente valore non esiste.

[49] Per semplicità di esposizione si sta omettendo di precisare le ipotesi necessarie affinché una data funzione ammetta l’esistenza di un limite, finito o infinito.

[50] La Topologia è lo studio delle proprietà delle figure geometriche del piano o dello spazio che rimangono invarianti per trasformazioni biunivoche e bicontinue dette omeomorfismi o trasformazioni topologiche, ossia trasformazioni che mantengono, anche inversamente, proprietà di “convergenza” e di “connessione” (cfr. Enciclopedia della Matematica Treccani, 2013).

La proprietà topologica alla quale si fa riferimento è la densità di R in sé.

[51] La funzione citata è una parabola con vertice nell’origine degli assi cartesiani e l’asse y come asse di simmetria.

[52] L’affermazione che segue è riferita ad uno spazio monodimensionale al solo scopo di semplificarne la comprensione; ovviamente il discorso è generalizzabile.

[53] Si fa qui riferimento al concetto topologico di completamento.

[54] Il 7 dicembre 1872 Felix Klein, in occasione della sua nomina a professore ordinario all’Università di Erlangen, tenne una prolusione in cui esponeva il suo programma di studi e ricerche dal titolo Vergleichende Betrachtungen über neuere geometrische Forschungen (Considerazioni comparative sulla recente ricerca geometrica, pubblicato in Mathematische Annalen vol. 43, 63-100, 1893) in cui indicava un metodo, fondato sul concetto di gruppo di trasformazioni, atto a stabilire una gerarchia tra diversi tipi di geometria. In tale discorso Klein poneva in particolare risalto il significativo passaggio dalla geometria elementare a quella proiettiva.

[55] L’esposizione dei concetti di base della Geometria Proiettiva esula dagli scopi di questo scritto, ci si limita pertanto a descrivere, di seguito, il concetto di coordinata omogenea nel piano secondo quanto riportato dall’Enciclopedia della Matematica Treccani (2013): “Nel piano proiettivo, un punto è rappresentato, a meno di un fattore di proporzionalità, da una terna ordinata di numeri reali non tutti nulli (x0, x1, x2). A tale terna, se x0 ≠ 0, corrisponde il punto del piano avente coordinate cartesiane x = x1/x0 e y = x2/x0. I tre numeri non devono essere tutti nulli e quindi alla terna (0, 0, 0) non corrisponde alcun punto del piano. I punti con la coordinata x0 = 0, che non hanno corrispondenti in un riferimento cartesiano, sono punti impropri; per esempio, il punto di coordinate (0, x1, x2) è un generico punto improprio, il punto di coordinate (0, 1, 0) corrisponde al punto improprio che esprime la direzione dell’asse delle ascisse, il punto di coordinate (0, 0, 1) corrisponde al punto improprio dell’asse delle ordinate”.

[56] Se due rette hanno più di un punto in comune allora esse coincidono, infatti in Geometria Euclidea per due punti del piano passa una e una sola retta.

[57] Ad esempio le rette di un fascio proprio.

[58] Il termine algoritmo deriva dal nome del matematico arabo Abu Abdullah abu Jafar ibn Musa al Khowarizmi vissuto nel IX secolo d.C., e denota un particolare tipo di procedura per passi. Non esiste una definizione matematica di algoritmo in seno alla Teoria della Calcolabilità ma si conviene di accettare che un algoritmo per essere tale debba soddisfare una serie di condizioni (per una lista universalmente accettata di proposizioni che caratterizzano un algoritmo si veda: Rogers H., Theory of recursive functions and effective computability, McGraw-Hill Book Company, New York, 1967, Cap.1, pp. 1-5).

[59] A differenza di un problema ordinario in cui si cerca, se esiste, una o più soluzioni che lo risolvano, i problemi di decisione (o problemi di decidibilità) sono intere classi di problemi fra loro omogenei per le quali si vuole determinare se esista o meno un algoritmo in grado di risolvere ciascun singolo problema della classe. Se un tale algoritmo esiste allora si dice che il problema è decidibile, diversamente il problema è indecidibile.

[60] La più autorevole dimostrazione dell’indecidibilità del problema della fermata la si deve ad Alan Mathison Turing, matematico, logico e padre nobile dell’Informatica, nel 1936.

[61] Cfr. David Hilbert, Sur les problems futurs des Mathématiques, Compte Rendu du Deuxième Congrès International des Mathematiciens, Paris 1900.

[62] David Hilbert, Sull’infinito (1925), tr. it. In La filosofia della matematica (a cura di C. Cellucci), p. 161, Laterza, Bari 1967.

[63] David Hilbert, Sull’infinito, op. cit., p. 162.

[64] Jean Dieudonné, Logica e Matematica nel 1980 in La nuova ragione, scienza e cultura nella società contemporanea (P. Rossi), p. 21, Scientia – Il Mulino, Bologna 1981. Jean Dieudonné, noto come portavoce del gruppo Bourbaki che intendeva fondare l’intera matematica sulla teoria degli insiemi, ha dato contributi all’analisi funzionale e alla geometria algebrica.

[65] Jean Dieudonné, Logica e Matematica nel 1980, op. cit., idem.